Testi di Italo Svevo e di Luigi Pirandello
Ettore Schmitz, Conseguenze di un traversone, in Nozze Rovis-Angelini, 6 aprile 1891, Trieste,
Tipografia Caprin, 1891 (testo integrale).
A fondo!
Caro
maestro, se Ella diverrà minaccioso come se avesse dimenticato il Suo abituale
ufficio di ricevere tutti quei colpi ch’Ella comanda, io a fondo non andrò
giammai; già cosi mi pare di esserle vicino di troppo. E io parare? Fuggire
piuttosto. Poco fa, e allora (oh! traditore!) aveva l’aspetto mansueto, mi
inviò un magnifico traversone che se non mi fece del male, me ne fa temere. E
di nuovo in guardia? Ah! no! per oggi grazie!
Domare
l’istinto, dice Lei? Se ve ne è la possibilità, certo, lo domeremo; è il mio
più vivo desiderio perché io lo odio con tutte le forze dell’anima mia. Sulla
pedana, ed è causa sua, mi sento anche più piccolo che a tavolino, e non è dir
poco per chi conosca la lotta che bisogna combattere per giungere a cavallo di
certi periodi. È cosa ben diversa, però.
A
tavolino è un’insufficienza che avvilisce, sulla pedana, invece, si viene annientati
dal destarsi in noi di un altro essere, padrone irragionevole col quale non si
discute, cieco e imperioso e brutale. È figlio del cervello, di cono, ma non
sembrerebbe perché è ben differente dagli altri prodotti di quell’organo. Non è
analisi e non sintesi. In quei frangenti il cervello somiglia un vaso in cui è
stata posta un’unica idea, l’idea dell’animale inerme, l’idea per cui lo
struzzo cela il capo credendo diminuire la propria rovina. E la lotta con quest’idea,
per chi ha il coraggio d’imprenderla, è dolorosa e vana. Ne risulta una mediana
di fuga e di parate non solo inutili, ma ridicole. Non mi rimproveri le quinte troppo
alte ο le seconde troppo larghe perché la colpa non è del braccio.
Un
suo scolaro che mi vide così, con il pugno flacido e indisciplinato, una delle
tante ribellioni delle singole parti del corpo, mi guardò con aria di
rimprovero. «Ella non è della nostra scuola!» mi disse. Sospettava un tradimento,
e infatti in quello stato d’animo nulla è più facile che di tradire.
Questo
stesso movimento che in me è fuga, io so, in altri si muta in parata precisa e
in attacco rapido tanto che non può essere diretto da un lento ragionamento e
io ammiro l’arte che sa convertire in forza anche quanto sembrerebbe dover
costituire eternamente la nostra debolezza.
M’inganno
ο questa debolezza in certi esseri apparentemente inferiori non esiste affatto.
Io vidi, e con invidia, in certe baruffe tra contadini, la risolutezza dell’attacco
e la parata astuta e opportuna, cioè una testa curvata a tempo per far andare a
vuoto qualche pugno poderoso ο l’avanzare ardito allo scopo evidente di
arrivare sotto misura, proprio da
schermidori, sebbene rigidi, provetti. Non può essere la pratica perché non posso
immaginare che abbiano lavorato di pugni ogni giorno.
Recentemente l’osservazione mi fornì un esempio anche più convincente. Il nostro popolo che lo sa, dice che il cicio non è fatto per la barca ["cicio no xe per barca", in dialetto triestino, per indicare una persona che non è adatta a fare qualcosa, inetta]. Eppure mettetelo in barca, e, se non ve la manda in pezzi, egli vi si muoverà con tutta disinvoltura come se vi fosse nato. Ne vidi uno discendere da un bragozzo a terra su un ponticello lungo e stretto. Egli camminava sicuro come sui suoi monti, senza alcun movimento non voluto, come se non avesse neppur sospettato il pericolo che minacciava tanto lui quanto il mare. Nella sua tranquillità sembrava addirittura elegante e da lontano, molto da lontano, credetti persino si trattasse di Alceo, quell’Alceo reduce dalle note battaglie.
Hanno
nervi meno sviluppati, mancanti di quelle reazioni potenti che hanno luogo
negli organismi in cui vi è maggior sviluppo nervoso. Così anche la vostra arte
tenta di ridare all’uomo una natura primitiva, toltane naturalmente l’ingenuità
e l’ignoranza.
Da
quanto precede si capirà che quando sento di Hildebrand e Hadubrand [padre e figlio, duellanti nel più antico poema epico germanico, VIII-IX secolo] che sulla
cima delle Alpi combatterono per giorni e giorni, e mandarono in pezzi cielo e
terra senza giungere a toccarsi giammai, sapendo da Lei, Maestro, che anche i
migliori vengono talvolta traditi dall’istinto, io di quegli antichi eroi non
ammiro la forza ma ammiro che di cici
simili oggidì ancora si parli.
E
adesso, detto un tanto a mia scusa, anzi a mia gloria visto che col fatto
provai che cicio non sono, giacché lo
vuole, per la buona regola, ecco il saluto. Mi riesce difficile! Nella mia
agitazione temo ch'Ella approfitti del mio forzato disarmo per ripetere quel disgraziato
traversone che provocò questa chiacchierata. Si figuri il mio stato! Giugno
fino a dimenticare il cavaliere ch’Ella è.
Ettore Schmitz
Da
Italo Svevo, Una vita, Trieste, Vram, 1892.
S’avvide
che per la seconda volta gli passava dinanzi un giovanotto fissandolo con
curiosità; aveva già visto altrove quel volto oblungo con baffi biondi e
sguardo penetrante e quella figura magra e lunga. Gli guardò dietro: Era
Federico Maller. Lo aveva riconosciuto ai calzoni attillati. Era una
combinazione o Annetta aveva confidato al fratello una missione per lui? Il
Maller non gli era stato mai simpatico e gli dispiaceva di aver a trattare con
lui, ma bisognava ora facilitargli il compito che s'era assunto per affetto
alla sorella.
Si
volse per salutarlo sentendo che s’avvicinava di nuovo ma nello stesso tempo
ricevette un urto che quasi lo gettò a terra.
-
Si chiede scusa, mascalzone! - gli urlò nell’orecchio il giovine Maller e alzò
la mano che nell'oscurità Alfonso credette armata.
Lo
volevano ammazzare? Si gettò sulla figurina mingherlina, trattenne la mano
levata in atto di minaccia e afferrò Maller per il collo. L’altro per
svincolarsi retrocedeva verso il mare. Alfonso ansava dalla fatica impiegando
molto più forza di quanto occorresse.
-
Vi getto in mare! - minacciò e gli diede una spinta ma non forte abbastanza.
-
Quanta cavalleria in questa città, - disse il Maller con disprezzo mettendosi
le mani al collo per raddrizzare il solino.
-
Credevo che mi volesse svaligiare, - rispose Alfonso indignato.
Ricevette
il biglietto di Maller e consegnò il proprio. Promise che i proprî secondi a
mezzodì del giorno appresso si sarebbero trovati da Maller. Era sorpreso di essersi
contenuto subito tanto correttamente.
Questo
dunque era stato l’appuntamento che Annetta aveva accordato. Ella aveva rapide
le decisioni e facili i mezzi. Mandava il fratello con l’incarico di ucciderlo.
Anche Annetta lo odiava, questo gli doleva; e lo disprezzava, perché non credeva
d’essere sicura di lui. Credeva di dover sopprimerlo per non averne a temere.
Non lo conosceva; in tanto tempo in cui egli l’aveva amata, ella non aveva
saputo comprendere quanto schietto e onesto fosse il suo carattere. Questo era
il doloroso, non che Federico probabilmente lo avrebbe ammazzato!
Camminava
con passo sempre più celere verso casa sua. Sul Corso si fermò un istante; gli
era parso che passasse Macario. Non era lui, ma Alfonso andava indagando se
forse gli avrebbe dato qualche soddisfazione il vendicarsi andando da Macario a
raccontargli tutta la sua avventura con Annetta. No! Unica soddisfazione che
potesse avere era di convincere Annetta ch'ella sul suo conto s'ingannava. Le
avrebbe scritto una lettera, un addio da moribondo.
Si
trovava con la penna in mano dinanzi al suo tavolo, ma non gli riusciva di
vergare una sola parola. Nella sua vita da sognatore il sogno non lo aveva
posseduto giammai così interamente. Depose la penna e mise la testa fra le
mani. Avrebbe voluto riflettere ma sognava irresistibilmente. Annetta lo voleva
morto! Desiderò che le riuscisse e che poi lo rimpiangesse. Sognava che l’amore
per lui, senz’altra causa, un giorno le rinascesse nel cuore e che ella andasse
alla sua tomba a spargervi fiori e lagrime. Oh! quanta buona calma in quel
cimitero ch’egli sognava verde e riscaldato dal sole.
Quando
riaperse gli occhi fu sorpreso di trovarsi dinanzi quel pezzo di carta da
lettera.
Doveva
battersi con Federico Maller in una lotta impari nella quale il suo avversario
aveva tutti i vantaggi: l’odio e l’abilità. Che cosa poteva sperare? Gli
rimaneva soltanto una via per isfuggire a quella lotta in cui avrebbe fatto una
parte miserabile e ridicola, il suicidio. Il suicidio gli avrebbe forse ridato
l'affetto di Annetta. Come in quell’istante non l’aveva amata giammai. Non si
trattava più d’interesse né di sensi. Quanto più egli l’aveva vista
allontanarsi da lui tanto più l'aveva amata; ora che definitivamente perdeva
ogni speranza di riconquistare quel sorriso, quell’affettuosa parola, la vita
gli sembrava incolore, nulla. Una volta scomparso, Annetta non avrebbe più
avuto il ribrezzo della paura per lui, per il suo ricordo, ed era tutto quello
ch’egli poteva sperare. Non voleva vivere dovendo continuare ad apparirle quale
un nemico spregevole sospettato di voler danneggiarla e farle pagare a caro
prezzo gli stessi favori da essa accordatigli.
Non
aveva pensato mai al suicidio che col giudizio alterato dalle idee altrui. Ora
lo accettava non rassegnato ma giocondo. La liberazione! Si rammentava che fino
a poco prima aveva pensato altrimenti e volle calmarsi, vedere se quel
sentimento giocondo che lo trascinava alla morte non fosse un prodotto della
febbre da cui poteva essere posseduto. No! Egli ragionava calmo! Schierava
dinanzi alla mente tutti gli argomenti contro al suicidio, da quelli morali dei
predicatori a quelli dei filosofi più moderni; lo facevano sorridere! Non erano
argomenti ma desiderî, il desiderio di vivere.
Egli
invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva
inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile.
Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che
altri nelle più dolorose. L’abbandonava senza rimpianto. Era la via per
divenire superiore ai sospetti e agli odii. Quella era la rinunzia ch’egli
aveva sognata. Bisognava distruggere quell'organismo che non conosceva la pace;
vivo avrebbe continuato a trascinarlo nella lotta perché era fatto a quello
scopo. Non avrebbe scritto ad Annetta. Le avrebbe risparmiato persino il
disturbo e il pericolo che poteva essere per lei una tal lettera.
Da Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Roma, Nuova Antologia, 1904.
Mi
s’era ancora una volta riaffacciato il pensiero schiacciante della mia assoluta
impotenza. Potevo fare un duello nella condizione mia? Non volevo ancora
capirlo ch’io non potevo far più nulla? Due ufficiali? Sì. Ma avrebbero voluto
prima sapere, e con fondamento, ch’io mi fossi. Ah, pure in faccia potevano
sputarmi, schiaffeggiarmi, bastonarmi: dovevo pregare che picchiassero sodo, sì,
quanto volevano, ma senza gridare, senza far troppo rumore… Due ufficiali! E se
per poco avessi loro scoperto il mio vero stato, ma prima di tutto non
m’avrebbero creduto, chi sa che avrebbero sospettato; - Mi vogliono dunque lasciar
solo in questo frangente? - proruppi ancora una volta, esasperato. - Io non conosco
nessuno, qua a Roma! - … Ma c’è il rimedio! C’è il rimedio! - s’affrettò a
consigliarmi Papiano. - Glielo volevo dir subito… Tanto io, quanto mio suocero,
creda, ci troveremmo imbrogliati; siamo disadatti… Lei ha ragione, lei freme,
lo vedo: il sangue non è acqua. Ebbene, si rivolga subito a due ufficiali del
regio esercito: non possono negarsi di rappresentare un gentiluomo come lei in
una partita d’onore. Lei si presenta, espone loro il caso… Non è la prima volta
che càpita loro di rendere questo servizio a un forestiere. Eravamo arrivati al
portone di casa; dissi a Papiano: - Sta bene! - e lo piantai lì, col suocero,
avviandomi solo, fosco, senza direzione. Mi s’era ancora una volta riaffacciato
il pensiero schiacciante della mia assoluta impotenza. Potevo fare un duello
nella condizione mia? Non volevo ancora capirlo ch’io non potevo far più nulla?
Due ufficiali? Sì. Ma avrebbero voluto prima sapere, e con fondamento, ch’io mi
fossi. Ah, pure in faccia potevano sputarmi, schiaffeggiarmi, bastonarmi:
dovevo pregare che picchiassero sodo, sì, quanto volevano, ma senza gridare,
senza far troppo rumore… Due ufficiali! E se per poco avessi loro scoperto il
mio vero stato, ma prima di tutto non m’avrebbero creduto, chi sa che avrebbero
sospettato; e poi sarebbe stato inutile, come per Adriana: pur credendomi,
m’avrebbero consigliato di rifarmi prima vivo, giacché un morto, via, non si
trova nelle debite condizioni di fronte al codice cavalleresco…
E
dunque dovevo soffrirmi in pace l’affronto, come già il furto? Insultato, quasi
schiaffeggiato, sfidato, andarmene via come un vile, sparir così, nel bujo
dell’intollerabile sorte che mi attendeva, spregevole, odioso a me stesso? No,
no! E come avrei potuto più vivere? come sopportar la mia vita? No, no, basta!
basta! Mi fermai. Mi vidi vacillar tutto all’intorno; sentii mancarmi le gambe
al sorgere improvviso d’un sentimento oscuro, che mi comunicò un brivido dal
capo alle piante.
«Ma
almeno prima, prima…» dissi tra me, vaneggiando, «almeno prima tentare… perché
no? se mi venisse fatto… Almeno tentare… per non rimaner di fronte a me stesso
così vile… Se mi venisse fatto… avrei meno schifo di me… Tanto, non ho più
nulla da perdere… Perché non tentare?»
Ero
a due passi dal Caffè Aragno. «Là, là, allo sbaraglio!» E, nel cieco orgasmo
che mi spronava, entrai.
Nella
prima sala, attorno a un tavolino, c’erano cinque o sei ufficiali d’artiglieria
e, come uno d’essi, vedendomi arrestar lì presso torbido, esitante, si voltò a
guardarmi, io gli accennai un saluto, e con voce rotta dall’affanno:
-
Prego… scusi… - gli dissi. - Potrei dirle una parola?
Era
un giovanottino senza baffi, che doveva essere uscito quell’anno stesso
dall’Accademia, tenente. Si alzò subito e mi s’appressò, con molta cortesia. –
Dica pure, signore…
-
Ecco, mi presento da me: Adriano Meis. Sono forestiere, e non conosco nessuno…
Ho avuto una… una lite, sì… Avrei bisogno di due padrini… Non saprei a chi
rivolgermi… Se lei con un suo compagno volesse…
Sorpreso,
perplesso, quegli stette un po’ a squadrarmi, poi si voltò verso i compagni,
chiamò:
-
Grigliotti!
Questi,
ch’era un tenente anziano, con un pajo di baffoni all’insù, la caramella
incastrata per forza in un occhio, lisciato, impomatato, si levò, seguitando a
parlare coi compagni (pronunziava l’erre
alla francese) e ci s’avvicinò, facendomi un lieve, compassato inchino.
Vedendolo alzare, fui sul punto di dire al tenentino: «Quello, no, per carità!
quello, no!». Ma certo nessun altro del crocchio, come riconobbi poi, poteva
esser più designato di colui alla bisogna. Aveva su la punta delle dita tutti
gli articoli del codice cavalleresco.
Non
potrei qui riferire per filo e per segno tutto ciò che egli si compiacque di
dirmi intorno al mio caso, tutto ciò che pretendeva da me… dovevo telegrafare,
non so come, non so come, non so a chi, esporre, determinare, andare dal colonnello
ça va sans dire… come aveva fatto
lui, quando non era ancora sotto le armi, e gli era capitato a Pavia lo stesso
mio caso… Perché, in materia cavalleresca… e giù, giù, articoli e precedenti e
controversie e giurì d’onore e che so io.
Avevo
cominciato a sentirmi tra le spine fin dal primo vederlo: figurarsi ora,
sentendolo sproloquiare così! A un certo punto, non ne potei più: tutto il
sangue m’era montato alla testa: proruppi:
-
Ma sissignore! ma lo so! Sta bene… lei dice bene; ma come vuole ch’io
telegrafi, adesso? Io son solo! Io voglio battermi, ecco! battermi subito,
domani stesso, se è possibile… senza tante storie! Che vuole ch’io ne sappia?
Io mi son rivolto a loro con la speranza che non ci fosse bisogno di tante
formalità, di tante inezie, di tante sciocchezze, mi scusi!
Dopo
questa sfuriata, la conversazione diventò quasi diverbio e terminò
improvvisamente con uno scoppio di risa sguajate di tutti quegli ufficiali.
Scappai via, fuori di me, avvampato in volto, come se mi avessero preso a
scudisciate. Mi recai le mani alla testa, quasi per arrestar la ragione che mi
fuggiva; e, inseguito da quelle risa, m’allontanai di furia, per cacciarmi, per
nascondermi in qualche posto… Dove? A casa? Ne provai orrore. E andai, andai
all’impazzata; poi, man mano rallentai il passo e alla fine, arrangolato, mi
fermai, come se non potessi più trascinar l’anima, frustata da quel dileggio,
fremebonda e piena d’una plumbea tetraggine angosciosa. Rimasi un pezzo attonito;
poi mi mossi di nuovo, senza più pensare, alleggerito d’un tratto, in modo
strano, d’ogni ambascia, quasi istupidito; e ripresi a vagare, non so per
quanto tempo, fermandomi qua e là a guardar nelle vetrine delle botteghe, che
man mano si serravano, e mi pareva che si serrassero per me, per sempre; e che
le vie a poco a poco si spopolassero, perché io restassi solo, nella notte,
errabondo, tra case tacite, buje, con tutte le porte, tutte le finestre
serrate, serrate per me, per sempre: tutta la vita si rinserrava, si spegneva,
ammutoliva con quella notte; e io già la vedevo come da lontano, come se essa
non avesse più senso né scopo per me. Ed ecco, alla fine, senza volerlo, quasi
guidato dal sentimento oscuro che mi aveva invaso tutto, maturandomisi dentro
man mano, mi ritrovai sul Ponte Margherita, appoggiato al parapetto, a guardare
con occhi sbarrati il fiume nero nella notte.
«Là?»
Un
brivido mi colse, di sgomento, che fece d’un subito insorgere con impeto
rabbioso tutte le mie vitali energie armate di un sentimento d’odio feroce
contro coloro che, da lontano, m’obbligavano a finire, come avevan voluto, là,
nel molino della Stìa. Esse, Romilda
e la madre, mi avevan gettato in questi frangenti: ah, io non avrei mai pensato
di simulare un suicidio per liberarmi di loro. Ed ecco, ora, dopo essermi
aggirato due anni, come un’ombra, in quella illusione di vita oltre la morte,
mi vedevo costretto, forzato, trascinato pei capelli a eseguire su me la loro
condanna. Mi avevano ucciso davvero! Ed esse, esse sole si erano liberate di
me…
Un
fremito di ribellione mi scosse. E non potevo io vendicarmi di loro, invece
d’uccidermi? Chi stavo io per uccidere? Un morto… nessuno…
Restai,
come abbagliato da una strana luce improvvisa. Vendicarmi! Dunque, ritornar lì,
a Miragno?
uscire
da quella menzogna che mi soffocava, divenuta ormai insostenibile; ritornar
vivo per loro castigo, col mio vero nome, nelle mie vere condizioni, con le mie
vere e proprie infelicità? Ma le presenti? Potevo scuotermele di dosso, così,
come un fardello esoso che si possa gettar via? No, no, no! Sentivo di non
poterlo fare. E smaniavo lì, sul ponte, ancora incerto della mia sorte.
Frattanto,
ecco, nella tasca del mio pastrano palpavo, stringevo con le dita irrequiete
qualcosa che non riuscivo a capir che fosse. Alla fine, con uno scatto di rabbia,
la trassi fuori. Era il mio berrettino da viaggio, quello che, uscendo di casa
per far visita al marchese Giglio, m’ero cacciato in tasca, senza badarci. Feci
per gittarlo al fiume, ma – sul punto – un’idea mi balenò; una riflessione,
fatta durante il viaggio da Alenga a Torino, mi tornò chiara alla memoria.
«Qua,»
dissi, quasi inconsciamente, tra me, «su questo parapetto… il cappello… il
bastone… Sì! Com’esse là, nella gora del molino, Mattia Pascal; io, qua, ora,
Adriano Meis… Una volta per uno! Ritorno vivo; mi vendicherò!»
Un
sussulto di gioja, anzi un impeto di pazzia m’investì, mi sollevò. Ma sì! ma
sì! Io non dovevo uccider me, un morto, io dovevo uccidere quella folle,
assurda finzione che m’aveva torturato, straziato due anni, quell’Adriano Meis,
condannato a essere un vile, un bugiardo, un miserabile; quell’Adriano Meis
dovevo uccidere, che essendo, com’era, un nome falso, avrebbe dovuto aver pure
di stoppa il cervello, di cartapesta il cuore, di gomma le vene, nelle quali un
po’ d’acqua tinta avrebbe dovuto scorrere, invece di sangue: allora sì! Via,
dunque, giù, giù, tristo fantoccio odioso! Annegato, là, come Mattia Pascal!
Una volta per uno! Quell’ombra di vita, sorta da una menzogna macabra, si
sarebbe chiusa degnamente, così, con una menzogna macabra! E riparavo tutto!
Che altra soddisfazione avrei potuto dare ad Adriana per il male che le avevo
fatto? Ma l’affronto di quel farabutto dovevo tenermelo? Mi aveva investito a
tradimento, il vigliacco! Oh, io ero ben sicuro di non aver paura di lui. Non
io, non io, ma Adriano Meis aveva ricevuto l’insulto. Ed ora, ecco, Adriano
Meis s’uccideva.
Da Luigi Pirandello, Il giuoco delle parti (1918), MIlano, Treves, 1919.
SILIA
(con gran voce, al colmo dell’esasperazione)
Statevi zitto, perché nessuno vi dà il diritto di giudicare della mia
suscettibilità! Pausa: poi, volgendosi al marito come se gli sparasse in petto:
Tu sei sfidato!
LEONE
Come? Io, sfidato?
GUIDO
Ma che sfidato! No!
SILIA
Sfidato! Sfidato!
LEONE
E chi mi ha sfidato?
GUIDO
Ma no…
SILIA
Ma sì, sfidato! Non so bene, so lui ha sfidato te, o se tu devi sfidare lui;
non m'intendo di queste cose; so che ho qua il biglietto di quel miserabile… Lo
cava dalla borsetta eccolo qua! Lo dà a Leone. Vai subito a vestirti e corri in
cerca delle due persone che debbono rappresentarti.
LEONE
Piano… piano…
SILIA
No. subito! devi far subito! senza dare ascolto a questo signore, che ti vuol
far credere a una mia follia, perché così gli conviene!
LEONE
Ah, gli conviene?
GUIDO
(indignato, fremente) Ma che mi
conviene! Scusate, che cosa volete che mi convenga?
SILIA
Vi conviene! vi conviene! Per miracolo non lo scusate, là… quel mascalzone….
LEONE
(guardando il biglietto) Ma chi è?
GUIDO
Il marchese Aldo Miglioriti.
LEONE
Tu lo conosci?
GUIDO
Lo conosco benissimo! Una delle migliori lame della nostra città, capisci?
SILIA
Ah, per questo dunque?
GUIDO
(pallido, vibrante) Che, per questo?
Che intendete dire?
SILIA
(come tra sé, con scherno e sdegno)
Per questo… per questo…
LEONE
Ma insomma posso sapere che cosa è accaduto? perché sarei sfidato? perché
dovrei sfidare?
SILIA
(scattando) Perché sono stata
insultata, oltraggiata. vigliaccamente, sanguinosamente, capisci? in casa mia,
per causa tua… perché sola, senza difesa… insultata, oltraggiata… con le mani
addosso, qua… a frugarmi… qua, in petto… capisci?… perché hanno sospettato
ch'io fossi… ah! Si copre il volto con le mani, e rompe in un pianto stridulo,
convulso, d'onta, di rabbia
LEONE
Ma come?… da questo marchese?
SILIA
Erano in quattro… tu li hai visti!
LEONE
Ah! quei quattro signori ch'erano accanto al portone?
SILIA
Quelli, quelli, sì; sono saliti, hanno forzato la porta…
GUIDO
Ma se erano brilli! se non erano in sensi!
LEONE
Ah… come? Tu c'eri? A questa domanda, grave di finto stupore, succede una pausa
di smarrimento in Silia e in Guido.
GUIDO
Sì… ma… non….
SILIA
(rinfrancandosi subito, aggressiva) E
che volevi, che mi difendesse lui? Doveva difendermi lui? Quando mio marito
aveva allora allora voltato le spalle, lasciandomi esposta all'aggressione di
quattro giovinastri, che, se lui si fosse fatto avanti —
GUIDO
(interrompendo) — io ero di là,
capisci? —
SILIA
(precisando) — nel salotto da pranzo
—
LEONE
(placidissimo) — bevevi qualche altro
bicchierino?
SILIA
(scattando con furia) Ma se me lo
dissero, se me lo dissero: “Se ci hai di là qualche signore, fai pure con
comodo, sai?”. Non ci mancava altro, per finire di compromettermi, che lui si
mostrasse! Guai, guai, se lo avesse fatto! Per fortuna, lo comprese!
LEONE
Ho capito… ho capito… Ma io sono meravigliato, Silia… no, che dico
meravigliato? stupefatto addirittura, che nella tua testolina sia potuto
entrare anche questo discernimento, cara!
SILIA
(stonata, non comprendendo) Che
discernimento?
LEONE
Ma che toccava a me di difenderti, perché il marito sono io, e tu la moglie, e
lui… uno che, ma sì, Dio liberi, se fosse entrato in quel momento, tra quei
quattro avvinazzati — (tanto più che un po' brillo doveva essere anche lui)…
GUIDO
Ma che brillo! T’assicuro che io non sono entrato per prudenza.
LEONE
E hai fatto benone, caro! Il miracolo è qua, è qua: in questa testolina che ha
potuto capire codesta tua prudenza… che tu l'avresti compromessa, se ti fossi
mostrato… e non t'ha chiamato in difesa, mentr’era aggredita da quei quattro —
SILIA
(subito, quasi infantilmente) — che
mi stavano addosso, sai? tutti, con le mani addosso… per strapparmi la veste —
LEONE
(a Guido) — capisci? e pensò a me!
che toccava a me! È tal miracolo questo, che subito, eccomi qua, subito,
subito, sì, sono dispostissimo a fare tutto quel che mi tocca!
SILIA
(stupita, pallidissima, quasi non
credendo ai suoi orecchi) Ah, benissimo! GUIDO (subito) Come! Tu accetti?
LEONE
(piano, sorridendo) Ma sicuro che
accetto! Scusa. Per forza. Non sei coerente!
GUIDO
(con stupore) Io?
LEONE
Ma sì, tu! tu! Perché la mia accettazione è una conseguenza diretta e precisa
della tua prudenza.
SILIA
(trionfante) È vero? Mi pare! Batte
le mani.
GUIDO
(stordito) Come… scusate… come, della
mia prudenza?
LEONE
(grave) Rifletti un poco. Se lei è
stata così oltraggiata, e tu hai fatto bene a essere così prudente, viene
perfettamente di conseguenza che a sfidare debbo essere io!
GUIDO
Ma nient'affatto! No! Nient’affatto! Perché la mia prudenza è stata… perché…
perché capii che mi sarei trovato di fronte a quattro incoscienti —
SILIA
(di nuovo scattando) — non è vero!
GUIDO
(a Leone) Tu capisci: nel vino,
avevano sbagliato porta; hanno chiesto scusa!
SILIA
Non l’ho accettata! Comoda, la scusa, dopo l’oltraggio! Non dovevo accettarla!
Ma guarda! come se l'avessero chiesta a lui! Come se avessero insultato e
oltraggiato lui, mentre per prudenza si teneva discosto!
LEONE
(a Guido) Vedi? Tu ora guasti tutto,
mio caro!
SILIA
L'oltraggio è stato fatto a me!
LEONE
(a Guido) È stato fatto a lei! A
Silia: E subito tu, è vero? pensasti a tuo marito! A Guido; Scusami, caro: vedo
che, proprio, tu non riesci a rifletter bene.
GUIDO
(esasperato, notando la perfidia di Silia)
Ma lasciami stare! Che vuoi che rifletta!
LEONE
(concedendo, sempre con aria grave)
Hai ragione, sì, hai ragione di dire che tu l’avresti compromessa, ma non
perché erano ubriachi, intendi? Questa, se mai, potrebbe essere una scusa per
me, perché io non li sfidi, perché io non li chiami a rispondere dell'oltraggio
fatto a lei…
SILIA
(disillusa) Come?
LEONE
(subito) Dico se mai, sta'
tranquilla! A Guido: Ma non può essere una scusa per la tua prudenza, ché anzi,
via… se erano ubriachi, potevi benissimo esser meno prudente.
SILIA
E già! Verissimo… Con degli ubriachi… un signore che si trovi a visita… Non era
ancora mezzanotte!
GUIDO
(insorgendo) No, Come? Se voi…
LEONE
(precipitosamente, rivolto a Silia)
No, no, no, no, scusa! Ha fatto bene, l’hai detto tu stessa! Come anche tu hai
fatto bene a pensare a me. Avete fatto benissimo tutt’e due!
GUIDO
(tra due fuochi) Ma no… ma io…
LEONE
Lascia fare! Son così contento io ch'ella abbia visto per la prima volta un
pernio: quello che mi tiene infisso nella mia parte assegnata, di marito!
Figùrati se voglio romperglielo! Cara, sì, sì, tuo marito, e tu sei la moglie,
e lui… e lui naturalmente sarà il padrino!
GUIDO
(scattando) Ah no, sai! Te lo puoi
scordare!
LEONE
Perché no, scusa?
GUIDO
Perché io non accetto!
LEONE
Non accetti?
GUIDO
No!
LEONE
Ma tu devi per forza accettare.
GUIDO
Ti dico di scordartelo! Io non accetto.
SILIA
(mordace) Sarà per la stessa
prudenza…
GUIDO
(esasperato) Ma, signora!
LEONE
(conciliante) Scusate… scusate, amici
miei… Ragioniamo. A Guido: Guarda: puoi negare che tu presti a tutti in città i
tuoi uffici cavallereschi? Ricorrono a te, tutti! Non passa un mese, perdio,
che non hai per le mani un duello, padrino di professione! Sarebbe da ridere,
via! Che direbbe la gente che ti sa tanto amico mio e così pratico di queste
cose, se io, proprio io, mi rivolgessi ad altri?
GUIDO
Puoi pure rivolgerti ad altri, perché io non accetto!
LEONE
(guardandolo fermamente negli occhi)
In questo caso me ne dovresti dire la ragione. E non puoi! Cambiando tono:
Dico… non puoi averne, via, né davanti a me, né davanti agli altri.
GUIDO
Ma come non ne ho, scusa? se per me qui non c'è luogo a duello?
LEONE
Questo non devi dirlo tu!
SILIA Io ho costretto quel signore a lasciarmi
il suo biglietto da visita; ho gridato avanti a tutti…
LEONE
Ah, è accorsa gente?
SILIA
Sì, alle mie grida! E hanno detto tutti ch'era bene dar loro una solenne
lezione!
LEONE
E dunque, vedi? Scandalo pubblico!